Desiderio inibito ovvero Sunlight in a cafeteria – E.Hopper, 1958

Aspettava un appuntamento ricorrente
Lo aspettava
Come si aspetta un’oasi nel deserto
Come un punto di ripartenza
Dove fermarsi
Per ritrovare un senso alle cose
Credeva fosse ricorrente
Era capitato due volte
Era diventato ricorrente… nella sua mente
Nella sua sola mente
E in quel cuore che stentava a battere
Aspettava con aria idiota


Lo sguardo fisso altrove
Tra loro un muro
Immaginò nei suoi occhi la disperazione di non poterlo abbattere
Forse era solo il riflesso dei propri
Impossibile avvicinarsi
Senza distruggere ogni equilibrio
Senza distruggere la propria vita
E la sua
E quella di tutti quelli intorno a loro
La sfiorava con lo sguardo
L’accarezzava col sorriso
L’abbracciava con la voce


Cosa c’era di sbagliato in quel desiderio?
Perché era nato?
Come lo poteva negare?


Se voleva ancora trovare un po’ di serenità doveva mettere fine a tutto
Non doveva coltivarlo
Pensarci


Ancora
La lasciò andare
E si accasciò nei suoi pensieri

Mi interessa la luce ovvero Intro a E.Hopper

Mi interessa la luce

L’accarezzo e m’accarezza
Mi lascio cullare dal suo colore
Che non è un colore
Perché è il colore di chi incontra 
È il bianco della casa di legno
il marrone del tetto
Il verde dell’albero che le sta di fronte
Il giallo di grano che al vento si inclina


Dà loro vita
A loro si adatta
Ne scopre la forma
Il contorno 
Il confine
Ecco, ogni pezzo a sè
Distinto
Separato
Solo

Entra indifferente
Di finestra in finestra
Su cristallizzati corpi
Che guardano assenti 
Nella solitudine d’una stanza d’albergo 
Nella routine di un ufficio 
e del suo ordinato schedario
Nella apatia di un dopocena 
d’una passione finita 
d’un amore passato


Di un tempo che è fermo
Nell’attimo eterno
D’uno sguardo perso 
nel vuoto infinito

Lettera a Edward Hopper

Mi è sempre piaciuto il sogno americano, mi sono sempre piaciuti il sole e la luce, le ombre nette, marcate, il voyeurismo delle finestre altrui, cogliere pezzi di vita delle conversazioni al bar al tavolino vicino al mio.
E m’hanno francamente rotto i sociologi del reale, che cercano conferma alle loro statistiche e teorie, dimenticandosi che il reale non si fa ingabbiare. 
E, caro Edward, ci ho trovato in Te un compagno di cammino.
Almeno a prima vista. 
Poi ho intuito che il tuo sguardo era molto più profondo del mio. Sapevi cogliere l’attimo. Un carpe diem da vero fotografo, ancora più da cameraman, scenografo, ma non regista: il regista l’hai lasciato fare ai tuoi attori, una sorta di personaggi pirandelliani in cerca d’autore.
E sapevi astenerti da giudizi: per questo hanno pensato fossi realista.

L’uomo che fuma alla finestra e la moglie che legge un libro in una stanza di hotel, dove alla finestra a fianco una donna seminuda legge forse lo stesso libro, quasi una bibbia del l’indifferenza e dell’apatia. E nella hall una donna di una sensualità elegante, in un rosso dismesso, osserva la fissità del vuoto, mentre attende la sorella che al terzo piano, di ermellino impellicciata, ha smesso di chiedersi il senso della vita

Li hai lasciati fare. Ognuno è uscito di casa, coi suoi pensieri, le sue speranze, la sua storia e ti ha raggiunto sulla scena, hai lasciato che scegliessero un luogo, una stanza dell’hotel e che trovassero il loro unico eterno attimo. Un colpo di luce dai proiettori del set: e l’hai fissato, per sempre.

Poi… non c’è un poi. Perché quell’uomo ha trovato lì per sempre la sigaretta che mai si consumerà, la moglie un libro senza un finale ma solo un eterno svolgersi di eventi, circolare come il tempo del Buddha. La ragazza mai più coprirà il suo bel corpo che nessuno coglierà. E le due sorelle non incontreranno mai i loro sguardi, due parallele nell’infinito non senso della vita.

Rimane tutta quella luce, quei contorni netti, precisi e per contro dolci. Una luce che avvolge e abbraccia.


(*) fotogramma tratto dal documentario su Rai5 intitolato E.Hopper – La tela bianca pubblicato su YouTube al link https://youtu.be/_IPPCxPFRq4