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Aspettava un appuntamento ricorrente Lo aspettava Come si aspetta un’oasi nel deserto Come un punto di ripartenza Dove fermarsi Per ritrovare un senso alle cose Credeva fosse ricorrente Era capitato due volte Era diventato ricorrente… nella sua mente Nella sua sola mente E in quel cuore che stentava a battere Aspettava con aria idiota Lo sguardo fisso altrove Tra loro un muro Immaginò nei suoi occhi la disperazione di non poterlo abbattere Forse era solo il riflesso dei propri Impossibile avvicinarsi Senza distruggere ogni equilibrio Senza distruggere la propria vita E la sua E quella di tutti quelli intorno a loro La sfiorava con lo sguardo L’accarezzava col sorriso L’abbracciava con la voce Cosa c’era di sbagliato in quel desiderio? Perché era nato? Come lo poteva negare? Se voleva ancora trovare un po’ di serenità doveva mettere fine a tutto Non doveva coltivarlo Pensarci Ancora La lasciò andare E si accasciò nei suoi pensieri
Mi interessa la luce L’accarezzo e m’accarezza Mi lascio cullare dal suo colore Che non è un colore Perché è il colore di chi incontra È il bianco della casa di legno il marrone del tetto Il verde dell’albero che le sta di fronte Il giallo di grano che al vento si inclina Dà loro vita A loro si adatta Ne scopre la forma Il contorno Il confine Ecco, ogni pezzo a sè Distinto Separato Solo Entra indifferente Di finestra in finestra Su cristallizzati corpi Che guardano assenti Nella solitudine d’una stanza d’albergo Nella routine di un ufficio e del suo ordinato schedario Nella apatia di un dopocena d’una passione finita d’un amore passato Di un tempo che è fermo Nell’attimo eterno D’uno sguardo perso nel vuoto infinito
Mi è sempre piaciuto il sogno americano, mi sono sempre piaciuti il sole e la luce, le ombre nette, marcate, il voyeurismo delle finestre altrui, cogliere pezzi di vita delle conversazioni al bar al tavolino vicino al mio. E m’hanno francamente rotto i sociologi del reale, che cercano conferma alle loro statistiche e teorie, dimenticandosi che il reale non si fa ingabbiare. E, caro Edward, ci ho trovato in Te un compagno di cammino. Almeno a prima vista. Poi ho intuito che il tuo sguardo era molto più profondo del mio. Sapevi cogliere l’attimo. Un carpe diem da vero fotografo, ancora più da cameraman, scenografo, ma non regista: il regista l’hai lasciato fare ai tuoi attori, una sorta di personaggi pirandelliani in cerca d’autore. E sapevi astenerti da giudizi: per questo hanno pensato fossi realista. L’uomo che fuma alla finestra e la moglie che legge un libro in una stanza di hotel, dove alla finestra a fianco una donna seminuda legge forse lo stesso libro, quasi una bibbia del l’indifferenza e dell’apatia. E nella hall una donna di una sensualità elegante, in un rosso dismesso, osserva la fissità del vuoto, mentre attende la sorella che al terzo piano, di ermellino impellicciata, ha smesso di chiedersi il senso della vita Li hai lasciati fare. Ognuno è uscito di casa, coi suoi pensieri, le sue speranze, la sua storia e ti ha raggiunto sulla scena, hai lasciato che scegliessero un luogo, una stanza dell’hotel e che trovassero il loro unico eterno attimo. Un colpo di luce dai proiettori del set: e l’hai fissato, per sempre. Poi… non c’è un poi. Perché quell’uomo ha trovato lì per sempre la sigaretta che mai si consumerà, la moglie un libro senza un finale ma solo un eterno svolgersi di eventi, circolare come il tempo del Buddha. La ragazza mai più coprirà il suo bel corpo che nessuno coglierà. E le due sorelle non incontreranno mai i loro sguardi, due parallele nell’infinito non senso della vita. Rimane tutta quella luce, quei contorni netti, precisi e per contro dolci. Una luce che avvolge e abbraccia. (*) fotogramma tratto dal documentario su Rai5 intitolato E.Hopper – La tela bianca pubblicato su YouTube al link https://youtu.be/_IPPCxPFRq4
Esplorava i meandri della sua memoria Aveva vissuto, sì aveva vissuto In un vortice di eventi Di drammi e di gioie Di successi e di fallimenti Di inseguimenti e di fughe Solo che era stato tutto talmente intenso Talmente senza fiato Senza pause Che ora non ricordava Semplicemente aveva cancellato ogni cosa Così almeno gli pareva Chi era quel figlio che gli pareva già nato di vent’anni? E gli altri diciannove? Chi era quella compagna con le rughe di trascorsi di dolore? Quando era stato il suo ultimo sguardo di complicità? E quella vecchia curva sui suoi anni? Com’era quand’era sua madre? Come se la vita che aveva passato fosse quella di un altro L’alienazione totale di un sè Che più non conosceva Ammantato nel suo dolore Malinconico oracolo interprete di arcani segni In un misto di nostalgia vuota di ricordi di una vita vissuta dal suo altro Dal suo alieno Con l’innocenza di un bimbo Senza meta Sciamano del suo passato Si lasciò andare E «piano piano, davanti ad ogni ricordo del passato il sipario si alzò»